mercoledì 22 aprile 2020

Slavoj Žižek on Virus

un libro «in divenire»

(...) Quale realtà? (Devo questa riflessione ad Alenka Zupančič). In questi giorni ci dicono spesso che ci vogliono cambiamenti sociali radicali se vogliamo davvero fronteggiare le conseguenze dell’epidemia in corso (io stesso mi annovero fra quanti diffondono questo mantra) – ma i cambiamenti radicali si stanno già verificando. L’epidemia di coronavirus ci pone dinnanzi a qualcosa che ritenevamo impossibile: che un fenomeno del genere potesse irrompere nella vita di ogni giorno, mai l’avremmo potuto immaginare – il mondo che conoscevamo ha smesso di girare, interi Paesi sono nell’isolamento totale, molti di noi sono al confino nelle proprie abitazioni (ma che ne è di quanti nemmeno possono permettersi questa minima misura precauzionale?), a fare i conti con un futuro incerto su cui, seppure la maggior parte di noi la scampasse, già incombe una crisi economica di proporzioni colossali… Questo significa che dovremmo reagire facendo l’impossibile – quanto sembra impossibile all’interno delle coordinate dell’ordine mondiale esistente. L’impossibile è successo, il nostro mondo si è fermato, l’impossibile andrà fatto per evitare il peggio, che poi sarebbe – cosa? (...)
Con il dovuto rispetto, mi permetto di dissentire, quindi, da Giorgio Agamben che interpreta la crisi in atto come un segno che «la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa». 


Le cose sono molto più ambigue: li unisce eccome – mantenere la distanza fisica è anche una forma di rispetto verso l’altro perché anche io potrei essere un portatore del virus. I miei figli ora mi evitano per il timore di contagiarmi (quello che per loro è un malanno passeggero per me può risultare mortale). 

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Il modo giusto di vivere l'isolamento
Permettetemi di cominciare con una confessione personale: mi piace l’idea di essere confinato nel mio appartamento con tutto il tempo a disposizione per leggere e lavorare. Anche quando viaggio, preferisco stare in una bella camera d’albergo e ignorare tutte le attrazioni del posto. Leggere un buon saggio su un quadro famoso per me è meglio che vedere lo stesso quadro in un museo affollato. Ma ho notato che ora questo mi rende più difficile, non più facile, essere costretto a stare a casa. Perché?
Lasciatemi citare ancora una volta la famosa battuta del film di Ernst Lubitsch Ninotchka: “Cameriere! Un caffè senza panna, per favore”, “Mi dispiace, signore, non abbiamo panna, solo latte, va bene anche un caffè senza latte?”. A livello pratico, il caffè rimane lo stesso, l’unica cosa che possiamo fare è trasformare il caffè senza panna in caffè senza latte, o ancora più semplicemente, aggiungere la negazione implicita e fare di un caffè semplice un caffè senza latte. Rispetto al mio isolamento non è la stessa cosa? Prima della crisi era un isolamento “senza latte”. Sarei potuto uscire, ma sceglievo di non farlo. Ora è il semplice caffè dell’isolamento senza possibilità di una negazione implicita.
Il mio amico Gabriel Tupinamba, uno psicanalista lacaniano che lavora a Rio de Janeiro, in un’email mi ha fatto notare questo paradosso: “Le persone che già lavoravano da casa sono le più ansiose e le più esposte al rischio delle peggiori fantasie d’impotenza, perché a determinare la singolarità di questa situazione nella loro vita quotidiana non è un cambiamento di abitudini”. Il concetto è complicato ma chiaro: se non c’è stato un grande cambiamento nella nostra realtà quotidiana, il pericolo viene vissuto come una fantomatica fantasia senza precedenti e per questo ancora più potente. Non ci dimentichiamo che nella Germania nazista l’antisemitismo era più forte nelle zone in cui la presenza degli ebrei era minima: la loro invisibilità li rendeva fantasmi terrificanti. (...)
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito sul numero 1353 di Internazionale.


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